Labouratorio è il webmagazine situazionista che ho diretto per un anno durante il 2011. Raccoglieva i contributi originali di uno staordinario gruppo di ragazzi in un esperimento abbastanza raro: per quasi 4 anni ha pubblicato regolarmente basandosi interamente sul lavoro volontario della sua redazione.
Nato da un gruppo di mattacchioni rosapugnanti, sotto la mia direzione svolta a sinistra per imboccare la strada del neosocialismo critico verso nuovismi, terze vie e presunte modernità nate già vecchie. Tante notti le ho passate in bianco a scrivere, editare, pensare e anche un pò sognare, che in un’altra vita, avrei senz’altro fatto il giornalista.
Questo è il pezzo che scrissi per l’ultimo numero, nel giorno della caduta di Berlusconi. Una risposta ideale all’editoriale del primo numero sotto la mia direzione.
Forse è vero che c’è un tempo per tutte le cose. Che si legge, si pensa, si clicca, si corre, si parla e non si scorgono i confini. Che siamo in perenne movimento, senza direzione, senza sosta, senza consapevolezza della meta.
Forse è vero che il frutto più avvelenato della modernità è l’averci spogliato dei confini materiali dell’esistenza, identità virtuali perennemente presenti, finalmente libere dalla tirannia di spazio e tempo, fluide, volatili, quasi eteree.
Forse è vero, ma è solo un’illusione. Ciò che è reale è perchè è qui e ora. Nello spazio di un attimo, del presente che è tutto ciò che è, è stato e sarà. In quell’istante di comprensione, in quello slancio d’amore, in quel lampo di interesse, non ancora soffocato dall’ansia bulimica di chi affoga la propria noia di vivere nella perenne attesa di un flash d’agenzia.
Vivere nel futuro è premessa di sciagura, e avremmo dovuto saperlo. Troppo intenti a guardare sempre avanti, ci siamo dimenticati di guardarci intorno, allo specchio, negli occhi. La vuota agitazione di chi arde di passione senza conoscere i propri limiti, senza la capacità di incanalare le proprie spinte in una direzione sostenibile, è la premessa della fine di ogni amore. L’ostinata frenesia non porta alla felicità, ma alla fine di tutte le passioni, allo spegnersi inavvertito del fuoco che brucia dentro, lasciando una desolazione di cenere e sogni smarriti.
La felicità è nella determinazione consapevole di chi sa dove vuole andare, è il compimento più genuino della realizzazione delle proprie potenzialità inespresse, è la condizione più alta di chi vive perché vuole vivere, in armonia col mondo e secondo giustizia. Ma se siamo solo noi a poterci realizzare, non possiamo essere noi a decidere chi siamo e di cosa siamo fatti e non c’è nulla di più insensato al mondo di scegliere di non fare i conti con sè stessi, di non cercare di capire cosa si è e cosa non si è.
Labouratorio finisce oggi, in una nuvola di fumo, di idee e di speranze. Muore di troppa libertà, di troppa fiducia, di troppa voglia. Muore per il troppo tempo di cui ha vissuto, e del troppo poco tempo che si è riservato per sè.
Siamo stati felici finchè abbiamo vissuto, finchè abbiamo avuto fiato in gola per gridare, finchè abbiamo combattuto nell’amore delle nostre idee e ideali. Ma la felicità non dura per sempre. Nulla dura per sempre, nemmeno il mondo stesso.
Ma per un mondo che scompare ce ne è un altro da costruire e perché sia costruito bene, su fondamenta solide e durature, è necessario che sia costruito secondo giustizia. E non si tratta, come spesso si equivoca, soltanto dell’equità nella ripartizione dei beni, degli oneri e degli onori. La giustizia non è un vuoto esercizio di contabilità, la banale divisione in parti eguali della torta della vita.
No. La giustizia è qualcosa di più. E’ la più intima ragione, la causa profonda che tiene unito il sistema nella sua armoniosa complessità. E’ la sostenibilità che regge l’ordine delle cose, il logos che ne è alla base e ne determina il bilanciamento più esatto. Vive in profondità, seppellita di contraddizioni, la giustizia. Ed è per questo che è così difficile servirla e difenderla.
Ma se la giustizia vive in profondità, in superficie si manifesta l’ingiustizia. E grida, di un dolore sordo, nelle menti e nei cuori degli uomini che non possono fare a meno di ascoltare e di com-muoversi. Nella catastrofe di un mondo che crolla sotto il peso di ingiustizie feroci, Labouratorio ha provato a mettere in ordine alcune priorità, a raccontare storie e unire persone, a porsi domande e a trovare risposte.
L’abbiamo fatto senza mezzi, senza chiese, o partiti da servire o fazioni da compiacere.
Abbiamo rifuggito e deriso i mestieranti della politica e gli “avventurieri della disubbidienza facile”, brandendo come spada il coraggio ingenuo di chi non ha niente da difendere e tutto da conquistare.
Non sappiamo cosa abbiamo conquistato e non sappiamo nemmeno che sarà di noi. Sappiamo solo che oggi che finisce il mondo, finiamo pure noi.
Ci ritroverete, forse, sempre qui. Anzi: ci troveremo qua, insieme. Perché oggi come ieri, “se c’è una cosa che ha significato fare, quella cosa è sostituire il noi ai tanti io che compongono gli stonati cori di questa mediocre post-modernità”.